Al mio arrivo a Dubai una delle cose che sin dall’inizio più mi colpirono era la presenza di un diverso mondo femminile, simbolizzata dal velo.

A Dubai il velo non è un obbligo come in Arabia Saudita o in altri paesi del Medio Oriente e le donne per strada vestono nei modi più disparati, sari e minigonne convivono con tuniche e vestiti africani e nelle spiagge bikini e burkini sono ugualmente accettati.

Buona parte della popolazione femminile locale però indossa abitualmente la tradizionale abaya, una tunica solitamente, ma non necessariamente, nera lunga fino ai piedi, insieme al hijab, il velo che copre interamente i capelli, e a volte anche al niqab, che copre parte del viso lasciando vedere solo gli occhi.

Nella mia visione di emancipata donna occidentale il velo rappresentava un segno inequivocabile di sottomissione, dipendenza, inferiorità della donna rispetto all’uomo.

Tuttavia, mentre giravo per la città cercando di scoprire il nuovo mondo in cui ero capitata, non potevo fare a meno di confessare a me stessa che c’era qualcosa di molto affascinante in quelle donne velate e vestite di nero che mi camminavano vicino per strada e che parevano emanare un’aura di solennità, sicurezza e determinazione invidiabili.

Giovani ragazze poco più che adolescenti portavano lunghe tuniche aperte su jeans e sneakers combinate a hijab colorati che davano loro un’aria molto cool, ed era abbastanza frequente vedere famiglie a passeggio sulla spiaggia e nei mall con le madri che camminavano davanti dritte come fusi, mentre il padre spingeva la carrozzina e si occupava dei bambini. La loro presenza, lungi dall’essere nascosta, esercitava ai miei occhi un potere magnetico, che si intuiva dal fascino dello sguardo, con i bellissimi occhi scuri accentuati dal kajal, e dalle andature solenni che incutevano rispetto.

C’era qualcosa di molto potente nel loro modo di scomparire, di rendersi invisibili nello spazio pubblico, che mi faceva pensare a una forma estrema di sfuggire al controllo, qualcosa che noi, in Occidente, forse avevamo perduto, nonostante le nostre identità di donne libere e di successo di cui tanto andiamo fiere.

“Che cosa ho io in comune con queste donne velate e vestite di nero che incontro quotidianamente per strada, in metropolitana, nei mall?”, non potevo fare a mano di chiedermi mentre faticavo a venire a patti con un mondo che mi sembrava ancora estraneo. Sentivo che in qualche modo il confronto quotidiano con un’immagine femminile diversa e allo stesso tempo intrigante mi aiutava a creare dei ponti con la nuova realtà, che il senso di mistero che queste donne suscitavano in me aveva a che fare, forse, con significati che stavo cercando da tempo, e che potevano nascondersi dietro i loro gesti severi e la solennità degli sguardi.

La loro presenza così intensa ed estrema non poteva essere evitata, come se fossero al tempo stesso tutte uguali e tutte profondamente singolari e diverse, circondate da un’aura di mistero che andava al di là di ogni spiegazione razionale.

Quando si vive in un paese straniero la vita quotidiana acquista spesso una sorta di mistero, e anche le più piccole cose possono diventare, al tempo stesso, sorprendenti e sconcertanti, affascinanti e minacciose. Una volta usciti dalla ripetitività rassicurante dei comportamenti quotidiani, infatti, anche i più semplici oggetti di uso comune possono inaspettatamente diventare veicoli di significati che sfuggono, piccoli frammenti di realtà che riescono, ogni tanto, a farci immaginare la possibilità di altre scoperte. Del resto la storia ci ha già insegnato che grandi invenzioni possono nascere da piccoli e banali accadimenti, come la mela di Newton e il bagno di Archimede che hanno stimolato feconde intuizioni. Per non sentirsi perduti nella nuova realtà bisogna quindi spesso affidarsi alle controverse emozioni che risuonano dentro di noi all’incontro con una cultura diversa, cercando di afferrare e di dare un senso al loro “linguaggio simbolico”.

Mi era difficile immaginare cosa potesse nascondersi sotto il velo, che mi sembrava incarnare al tempo stesso un segno di sottomissione e la memoria di un potere antico; ma contemporaneamente intuivo che le donne velate di cui tanto subivo il fascino stavano forse preservando, in qualche modo, un mistero dell’esistenza che noi avevamo perduto; e questo mistero mi attirava e incuriosiva.

Il contesto politico del velo

Forse è bene però a questo punto contestualizzare, anche se solo parzialmente, la questione del velo femminile che oggi, all’interno del quadro sociale e politico in cui ci muoviamo, è un tema molto dibattuto e molto divisivo,.

Il velo è diventato infatti negli ultimi decenni simbolo, bandiera e cavallo di battaglia di tutti coloro che, sia in Occidente che in Oriente, invocano un irriducibile scontro di civiltà; e questa disputa si è intensificata dopo il 11 settembre 2001, quando tutto il mondo musulmano è stato identificato con il “male assoluto”, portatore di tutti i peggiori incubi e paure dell’Occidente.

Le ragioni che hanno portato a identificare nel velo il simbolo del dominio maschile sulla donna nel mondo islamico sono evidenti: la sua potenza iconica è talmente visibile e immediata che tutti i fondamentalismi politici e religiosi che negli ultimi anni hanno conquistato il potere lo hanno imposto, per prima cosa, come un obbligo, privando le donne, e di conseguenza anche gli uomini, di libertà fondamentali. Nel corso dell’ultima decade però la disputa intorno al velo si è spesso rivelata anche un pretesto per affermare, una volta di più, la supremazia politica e morale dei valori dell’Occidente, contribuendo a ripulire la cattiva coscienza coloniale degli stati europei e a riaffermare, se mai ce ne fosse bisogno, il primato della civiltà occidentale (E. Said, Orientalism, Penguin Books, 2003).

Peccato che nel discorso politico corrente non si faccia in genere nessuna differenza tra la diversa influenza che sul velo hanno religione e tradizione, non considerando che molti dei vincoli che lo riguardano sono dettati più da usanze, abitudini locali e obblighi familiari che da precetti religiosi. Del pari, raramente si tengono in considerazione le differenze che esistono tra gli stessi paesi musulmani, sottovalutando le profonde diversità di culture che hanno alle spalle una storia millenaria, e si applicano le stesse generalizzazioni quando si tratta di Arabia Saudita, dove le donne non possono girare a capo scoperto in pubblico indipendentemente dalla loro religione o dal paese di provenienza, e Turchia, dove l’uso del velo negli spazi pubblici è stato abolito per legge da Ataturk nel 1928 e viene oggi rivendicato dalle stesse donne come un diritto (cfr. Lilli Gruber, Figlie dell’Islam, Rizzoli, Milano, 2007).

Il dibattito politico intorno al velo è dunque oggi senza dubbio un tema scottante che viene cavalcato e strumentalizzato dai fondamentalismi di entrambe le parti con il risultato di costringere le donne in una posizione paradossale che spesso passa sopra le loro teste e non ha molto a che fare con la libertà di scelta e l’espansione del ruolo femminile nella società.

Entrare nel merito di un dibattito politico approfondito non è possibile in questo spazio, ma di fronte alla violenza delle reazioni che il tema del velo suscita credo che una delle domande che dovremmo finalmente porci sia non tanto perché le donne musulmane portano il velo, ma piuttosto “perché noi, in Occidente, siamo tanto spaventati dal loro coprirsi?”. Fatema Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina nonché una delle più brillanti voci del dibattito sociale e politico sul ruolo e la figura femminile in Islam, nel suo saggio L’Harem politico (Le Harem politique: le prophète et les femmes, Albin Michel, 2010) fa un’interessante disamina sul significato del velo nella tradizione islamica delle origini. Hijab, il termine islamico che indica il velo, significa letteralmente tenda, qualcosa che, nella tradizione musulmana, discende non per mettere una barriera tra un uomo e una donna ma piuttosto tra uomini. Il riferimento, racconta la Mernissi, è alla festa di matrimonio del profeta con una delle sue tante mogli, la bella Zaynab, durante la quale Maometto, esasperato perché gli ospiti si attardavano in modo sconveniente mangiando, bevendo e conversando e impedendogli quindi di rimanere solo con la sposa, decise finalmente di calare un velo, una tenda, per appartarsi dagli occhi indiscreti. Il concetto di hijab che discende dal Corano è dunque molteplice: significa sottrarre qualcosa allo sguardo altrui, marcare un confine e stabilire una soglia, ma indica anche una terza dimensione astratta, quella etica, che attiene al campo del proibito. Lo spazio nascosto dall’hijab è dunque anche uno spazio proibito, inaccessibile, che nella declinazione mistica sufi diventa il velo della realtà materiale fenomenica che impedisce di entrare in contatto con il divino e la trascendenza, incarnando così un limite, un’incapacità. Hijab esprime intrinsecamente una contraddizione, è al tempo stesso una protezione e un limite, va rispettato quando separa dal principe, va superato quando separa da Dio. Nel sistema di significazione del musulmano di oggi questa breve digressione sul significato di hijab assume una prospettiva ancora diversa. I musulmani oggi, dice ancora la Mernissi, soffrono del “male del presente”, una difficoltà estrema nel dare un senso al tempo presente che si traduce in uno sguardo verso il passato e sfocia in una nostalgia auto-distruttiva. Il passato “grandioso” delle origini della predicazione del profeta è per il musulmano di oggi molto più consolatorio del presente, poiché nell’ultimo secolo la dominazione coloniale ha acuito le frustrazioni e il senso di inferiorità del mondo arabo nei confronti di un Occidente che invece, nel passato delle origini, era stato soggiogato e dominato. Il trauma vissuto dal popolo musulmano nel periodo coloniale è stato però cancellato, velato, considerato inesistente da un ordine di senso in cui esso non poteva riconoscersi; paradossalmente, il popolo musulmano è stato “femminilizzato” da un potere coloniale che gli ha imposto un diverso ordine di realtà, e in qualche modo parlare del problema femminile significa affrontare un trauma molto più profondo senza nominarlo. Questo spiegherebbe almeno in parte perché il velo femminile sostanzi tanti diversi significati e susciti tanti dibattiti di opinione: il velo incarna, a livello profondo, un sistema identitario, e rappresenta una rivendicazione di libertà verso un sistema di potere estraneo. Spesso proiettiamo su altre culture ciò che non vogliamo, o non siamo capaci di affrontare, della nostra; il velo femminile simboleggia un confine tra componenti consce e inconsce della psiche, personifica un “inconscio culturale” che si colloca tra inconscio personale e collettivo come un sistema di significazione condiviso tra i membri di una stessa cultura; rappresenta l’immagine culturale che l’Islam trasmette al mondo, sotto la quale si nasconde l’inconscio, con i suoi complessi e archetipi che alimentano l’intera persona collettiva. Ripercorrere la storia del femminile in Islam può essere dunque un’operazione utile per sollevare anche qualcuno dei “veli dell’Occidente”, permettendo di porci nuove domande. Quali paure stiamo nascondendo sotto i nostri veli, maschili e femminili, individuali e culturali? Di che stoffa sono fatti i burqa e i veli occidentali? Sotto quali veli è confinato, nascosto, il principio femminile in Occidente?

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