Irrequietezza migratoria: potrebbe essere una condizione di vita, un sinto-mo, oppure una metafora che fa sognare un po’. Invece sembra che sia un istinto, che spinge gli uccelli a migrare due volte l’anno per andare verso nord in primavera e tornare verso sud in autunno.

Questo almeno è ciò che ci raccontano all’Osservatorio sulle Migrazioni di Ventotene, una minuscola isola dell’arcipelago pontino tra il Lazio e la Cam-pania che è una delle tappe in cui gli uccelli migratori fanno sosta nel lungo viaggio, più di trentamila chilometri, che compiono due volte l’anno.

I ricercatori dell’Osservatorio che studiano le rotte delle migrazioni inanella-no gli uccelli che rimangono impigliati nelle grandi reti disseminate sull’isola, prima di liberarli, per poterne tracciare il cammino. Gli uccelli migratori, rac-contano, partono dall’Africa e vanno verso nord in primavera per riprodursi, e compiono il percorso inverso in autunno per sfuggire ai rigori dell’inverno. Nel viaggio di andata e in quello di ritorno percorrono due rotte diverse, perché diverso è l’obiettivo del viaggio; all’andata , volando verso nord, l’istinto a riprodursi li spinge a fare il tragitto nel più breve tempo possibile sorvolando il mare in linea retta; mentre al ritorno verso sud la rotta è una curva che può prevedere alcune soste di riposo a terra per rifocillarsi. Il viaggio di ritorno può durare quindi un paio di mesi, ma è di soli dieci giorni all’andata; e se pensiamo che l’Albatros Urlatore può vivere più di 60 anni, durante i quali compie tra andata e ritorno almeno 60.000 chilometri l’anno, il conto finale è da capogiro.

L’Osservatorio è anche un serbatoio di storie che si intrecciano in volo.

Quanto può pesare, ad esempio, il Luì, un piccolo uccello passeriforme con le penne del collo striate di verde e di giallo? Soltanto 7/8 grammi, e nono-stante ciò è capace di volare ininterrottamente per giorni senza mangiare e senza bere, perdendo buona parte del suo peso nel viaggio.

Il destino della Berta Grande è invece commovente e triste al tempo stesso: simile a un piccolo albatros, la Berta vive in coppia e cova un solo uovo per volta senza abbandonare mai il nido per nessun motivo. Maschio e femmina covano a turno mentre l’altro va a caccia di cibo, e se qualcosa gli impedi-sce di tornare il partner si lascia morire piuttosto che abbandonare la cova e l’intera famiglia si estingue.

Irrequietezza migratoria, dunque.

Non saprei spiegare esattamente il perché, ma queste due parole mi risuo-nano dentro come qualcosa di familiare, con il senso di un destino.

Perché migrano gli uccelli?

Improvvisamente, dopo i racconti, questa domanda si trasforma nel suo contrario: come potrebbero non farlo? E acquista un senso e un fascino an-cora maggiori, la ragion d’essere della vita stessa, che porta una nuova luce anche alle tormentate migrazioni di noi umani, che potrebbero essere final-mente sostenute dall’istinto di vita invece che dallo spettro della morte. Quindi forse potremmo chiederci anche noi, ogni tanto, se davvero l’irrequietezza migratoria colpisce solo gli uccelli, e se non dovremmo affi-darci di più ai nostri “geni migranti”; non foss’altro che per liberarci da quelle “ragnatele nel cervello” che secondo Bruce Chatwin la vita sedentaria inevi-tabilmente provoca.